Le Belle Balle

Mediglia, 1 aprile 2021


Alle balle che ci raccontiamo, quando siamo in coppia, finiamo per credere, come a quelle che ci raccontiamo da soli. Sia che ce le si racconti in prima persona, sia che le racconti l'altra metà, sia che le si racconti in coro. Anche in questo la coppia rappresenta un unicum e un soggetto nuovo rispetto ai singoli.

Poi, a conti fatti, a relazione finita, quando si torna individui, chi ne soffrirà di più non sarà il più ingenuo, come accade normalmente per le bugie subite, ma colui al quale resterà meno tempo e possibilità per porvi rimedio. Di qualsiasi bel sogno si sia trattato.

#lockdown #vaccini - C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stone, ma poi finì in Lockdown

 

Mediglia, 21 marzo 2021


Già... In questi giorni mi capita di chiedermi, fra me e me, che cosa succederebbe se in una democrazia la maggioranza delle persone non desiderasse più fare qualcosa, tuttavia chi è al potere (e li rappresenta legittimamente) continuasse a perseverare nell'imporgliela.

Non è detto che una misura giusta e adeguata, per quanto difficile da sopportare, resti la migliore (o meglio, la più condivisa) a prescindere dalla sua durata. Giusto?

Come non è detto che faccia bene al benessere dell’intero organismo questa reiterazione sine die. Prendiamo, ad esempio, gli antibiotici. Li assumiamo, in determinate circostanze precise, per curare quel popolo di cellule che coabitano in quel paese che è il nostro corpo umano. E’ consigliato assumerli in quei casi precisi e solo in quelli. Si parte, cioè, dal presupposto che non vadano assunti per ragioni diverse né per periodi troppo lunghi. Pena, il rischio di nuocere gravemente al bebessere di quella straordinaria società di cellule che è il corpo umano.

Noi esseri umani, in democrazia, già facciamo più fatica a identificarci come un corpo unico e a preservare tale legame, di necessità più sociale che naturale. A maggior ragione, il fatto di reiterare indefinitamente, seppur mediante nuovi atti pensati ad hoc per situazioni di necessità e urgenza, uno stato di eccezionale riduzione delle libertà personali, tende facilmente a divenire ingiustificabile.

Diversa è una situazione di necessità e urgenza. Altra è una situazione seria e prolungata che richieda atti necessari a gestirla. Altra ancora una situazione sanitaria non più seria (pensando al futuro, appunto) che richiederà atti regolatori dei comportamenti sociali (continuare a indossare le mascherine quando saremo tutti vaccinati, ad esempio e che durerà, pare, per altri anni ancora).

Durante questo primo anno l’emergenza Covid è stata tremendamente impattante in termini di rischio per le nostre vite (e continua ad esserlo). Ma da qui a sei mesi, probabilmente, grazie alle robuste compagne vaccinali non risulterà più così tremendamente impattante. Intendo non tanto da minacciare in modo così aperto e chiaro le vite da non lasciare dubbio alcuno sul modo di operare (ad esempio penso all'adozione della misura del coprifuco durante una guerra). Allora mi chiedo: per quanto ancora e fino a che attenuazione del rischio la restrizione delle libertà personali potrà continuare a considerarsi legittima in democrazia?

Perché me lo chiedo ora se ancora siamo in piena emergenza?

Provo a spiegarlo. Secondo le mie reminiscenze di diritto il termine è un elemento essenziale del contratto e la sua mancanza lo rende nullo. Inoltre, ricordo che la reiterazione sine die di un contratto concepito per avere un termine lo snatura (ad esempio il ricorso a rinnovi reiterati di contratti di lavoro a termine) rendendolo di nuovo nullo.

Dunque per questa ragione è ora il momento giusto in cui porsi la domanda: vogliamo ragionare su "per quanto ancora"?

Per quanto ancora, ad esempio, non potremo (nemmeno quando saremo tutti vaccinati già ci dicono alcuni “specialisti”) scegliere di girare senza mascherine? 

Per quanto ancora non potrò vedere il sorriso di un’amica in pubblico passeggiando? 

Anche questo sarà oggetto di regolamenti calati dall’alto? Anche dopo che saremo tutti vaccinati? 

Io non sono d’accordo! E lo voglio dire ora, in tempi non sospetti. A quel punto si tratterà di regolare libertà individuali all’interno di quelle sociali e non sarà accettabile che vengano regolamentate né d’urgenza né coercitivamente.

Per questo è ora il tempo per ragionare di un confine immaginato fra l’emergenza e la sua definitiva archiviazione a favore di una “nuova normalità” per l’appunto, in cui tutti e soli i cittadini vivi, impegnati a vivere le loro uniche esistenze possano scegliere, come hanno imparato e confidato di poter fare nelle Scuole e nelle Università del loro paese, nel nostro caso’Italia, ai tempi dei loro studi, di regolarsi come meglio credono fra le infinite incertezze che l’esistere di per sé pone.

In frangenti come quello che stiamo attraversando, mi chiedo: ma insomma, per continuare a dirci in democrazia, non avrebbe senso immaginare, ad un certo momento, dopo un tempo che non può in re ipso continuare per molto a definirsi emergenziale, ma diventa giocoforza una "nuova normalità", raccogliere l'opinione dei cittadini per decidere come dipanare l’esistenza comunitaria futura?

Non dico domani... Magari stabiliamo fra sei mesi? Facciamo un annetto ancora? Che faccio signo', lascio?? O aspettiamo e basta? Senza fregarcene della mancanza di un termine che ci avevano insegnato essere essenziale?

 

C’è poi c’è la moralmente ingombrante questione de: “E' per il bene di tutti!”. Vorrei anche qui recuperare levità per aiutarci a decidere con un minor peso sul cuore.

Non ci siamo improvvisamente trasformati in Padri della razza umana di stampo biblico. Non si tratta di essere divenuti d’acchito depositari del Bene platonico erga omnes e per sempre. Si tratta, molto più prosaicamente, per quanto da non prendere alla leggera, del bene di tutti i viventi hic et nunc. Perché agli altri esseri umani che hanno vissuto prima della Pandemia e che vivranno dopo di essa, della pandemia Covid-19 e dell'entità e durata delle restrizioni applicate sul genere umano vivente allora, non importava e non importerà un gran ché. A voi importa delle restrizioni che subirono nel periodo della Spagnola?

Lo dico non per fare un ragionamento superomistico o darwiniano, ma, al contrario, per sgravarci di questo apparente fardello de: “è per l’umanità intera” di cui viene caricata, a volte, la questione.

Parliamoci chiaro: anche se il 90% degli umani morisse il restante 10% ripopolerebbe il pianeta nel giro di pochi lustri con effetti pressoché nulli sulla storia dell'umanità.

Quindi è una questione che riguarda il trade-off fra libertà e sicurezza delle vite nostre e nostre soltanto. Riguarda noi vivi ora, tutti noi e soltanto noi. Dunque lo stesso deve valere per le restrizioni, le rinunce e le speranze correlate.

Cerchiamo di prendere in mano la questione con piglio fattivo. Per quanto siamo convinti che continuerà ad essere il comportamento migliore quello di delegare (e ridurre consistentemente) le libertà personali che esercitiamo nelle nostre brevi e irripetibili esistenze (solo di noi vivi ora) come contromisura al rischio di contrarre il Covid (sempre solo noi e ora)? E’ in questi termini che porrei la questione filosofica prima che di diritto.

 Di qui l'altra domanda: nelle more di questa presa di coscienza collettiva e della successiva scelta democratica, continuando come stiamo facendo, fino a quando si continuerebbe de facto a potersi definire in democrazia?

Beninteso, finora (è ancora per un po') condivido il modo in cui si è agito (per quel che può interessare). Ma nella cornice teoretica della tradizione democratica "classica" di diritto fino a che punto è legittimo protrarre questo stato?

Infine, va preso atto del fatto che c'è un fenomeno nuovo sotto il cielo dei paesi democratici (e non solo). E tutti i fenomeni nuovi vanno regolamentati con legislazioni ad hoc, come ad esempio si è tentato di fare per il mondo digitale. Anche di qui il mio chiedermi: ma per questo fenomeno nuovo non dovrebbe esistere un limite di durata alle limitazioni delle scelte personali? Val la pena pensarci per tempo? 

Così, chiedo per un amico.. che amava i Beatles e i Rolling Stone, ma ora (e in assenza di termine) è finito in lockdown.

#PRINCIPIANTI (racconti)

 Autore: Raymond #Carver

Anno pubblicazione: 2009

Io narrante, punto di vista e persona: terza e prima persona, varia al variare dei racconti.

 

Mediglia, 3 gennaio 2021

Potremmo descriverli tutti con una sola frase: racconti dei pieni, dei vuoti e della psichedelia schizofrenica degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti d’America.

Sì, perché Carver è davvero un intagliatore (carver = intagliatore). Infatti attraverso una tecnica narrativa potente quanto scarna, fatta essa stessa di pieni e vuoti significativi, a volte feroci, riesce a restituirci le esistenze condotte da una certa parte di quella società americana, una società nel complesso mai così opulenta materialmente, ma valorialmente vuota, allo sbando. Ostaggio per la prima volta di questa dicotomia. Il vuoto è così vuoto proprio perché contrapposto ad altrettanto vertiginose nuove e diffuse pienezze materiali, finalmente alla portata dei più grazie dal boom economico. Una ricchezza che riempiva le tasche, le case, le cascine, le proprietà in genere. Uno riempirsi non solo materiale, ma potenziale: che apriva scenari di nuove insperate possibilità per molti. Ma è qui che l’equilibrio salta: a questo riempirsi materiale spesso non fa da contrafforte un altrettanto robusta capacità di gestione personale e valoriale di queste ulteriori disponibilità reali e potenziali. Valori che avrebbero, forse, potuto guidare il godimento di questa nuova ricchezza in maniera più saggia. Insomma, un mondo pieno di possibilità per moltissimi, ma popolato da principianti. E Carver ce ne dà conto, sistemato proprio da quel lato della società, e lo fa in modo specchiato. Riempie le pagine di particolari incisivi per poi svuotarle sapientemente di altri, creando mancanze feroci, assenze potenti, che saltano all’occhio. Riesce a creare veri e propri scenari di un orrore ordinario e diffuso. Un orrore puro, feroce, ma molto umano, troppo umano, direbbe qualcuno, nel suo idiota e ingenuo reiterarsi. I suoi racconti sono alter ego verbali delle opere di Edward Hopper. L’alternarsi e l’ibridarsi di questi pieni e vuoti crea atmosfere psichedeliche mentre la loro alterità fatta del rifiuto di un riconoscimento reciproco ne denota la schizofrenia. Tutto ciò si rispecchia nel linguaggio di Carver che, nello scriverne, ne diviene testimone e mentore interno.

Consigliato a tutti coloro che sono affascinati da Sogno Americano che fu, anche nei suoi aspetti più deteriori.

INCUBI E VISIONI: L’EREDITA’ DI H.P. LOVECRAFT - breve filmato trasmesso sulla RAI


Finalmente il Solitario di Providence viene sdoganato anche in Italia su canali pubblici. Anche se a ora tarda e per soli 6 minuti. 


#StephenKing – Elevation

 




 
Autore: #StephenKing

Anno pubblicazione: 2019

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.


Mediglia, 18 novembre 2020

La storia di un uomo che perde inspiegabilmente peso. E con esso acquisisce levità. Levità nei confronti dell’esistenza. Man mano che s’alleggerisce percepisce quanto il peso della materialità  opprima. King poi compie un altro piccolo miracolo ed eleva anche noi lettori. Infatti, ancora una volta, riesce ad alleggerire il peso delle pagine del suo scritto; talmente che quando cominci a sfogliarle, fatichi a smettere, sfilano lievi al tocco e all’occhio.

Nel suo “On writing” confessò di sbirciare la moglie Tabitha mentre legge le sue prime stesure, quando non se ne avvede, per scoprire in quali punti posi la bozza. Lo fa perché sostiene che quelli sono i punti in cui la tensione cala. Lì va ad incidere con le revisioni. Non posso che constatare che sia riuscito nel suo intento.

Questo romanzo breve o racconto lungo, data l’usuale mole delle opere di King, affronta alla maniera del Re il concetto del trapasso e del rito che comporta. Il tutto calato nell’esistenza di un americano medio, abitante di un paesino archetipico (talmente tipico da non esistere ed essere stato concepito dalla mente dell’autore e poi utilizzato svariate volte nei suoi romanzi: Castle Rock).

Anche questa volta, la forza del romanzo è “tutta” qui. King riesce a raccontare ancora l'America contemporanea, o meglio, gli Stati Uniti, come mi fecero notare amici Argentini una volta. Il paese autentico, fatto di persone. Ognuna con i suoi rapporti umani fatti di solidarietà e contrasti, di presenze e grandi assenze. Ci narra di cittadine dove possono nascere facilmente amicizie e altrettanto facilmente sgretolarsi. Luoghi che sono l’appendice di una società i cui abitanti sono abituati a concepirsi come disancorati da riferimenti, siano essi una casa, dei genitori, amici o luoghi. Persone che consapevoli di ciò, hanno avuto necessità di compensare e sviluppare la capacità di stringere con altrettanta facilità nouvi rapporti profondi.

Esistenze in movimento figlie di un modello dedito alla ricerca della fortuna materiale. King, così, mentre ci culla nel loro sogno, coglie l’occasione per descrivere le traiettorie di queste esistenze, che più o meno ricche materialmente, restano tutte proiettate in quest’afflato. Per scoprire che il Sogno resta tale, sia che venga coronato, sia che non ci si riesca, proprio perché puramente e solamente materiale, non vivo, consolatorio. Così King, mentre ci parla di storie di statunitensi ci racconta del Sogno americano; sempre dietro l’angolo, e alla portata di tutti in teoria, ma i biglietti vincenti sono pochi come nelle lotterie a premi.

Tutti possono partecipare, e per chi non viene estratto resta l’incubo americano, suo contraltare altrettanto alla portata di tutti, ma molto più frequentato. Che poi altro non è che il conto da pagare pro capite per mettere insieme il monte premi per i relativamente scarsi biglietti vincenti. Lo salderà la maggioranza, fatta di americani che erano, magari, anche sulla strada buona ma, hanno incespicato, perdendo colpi (o mostrando umanità) non riuscendo così ad imbroccare il proprio Sogno. Ecco che allora, dalle sue ceneri, prende forma qualche altra fantasia distorta, deviante, emersa da qualche anfratto dell’immaginario, antri dei quali il Re è il Re. Sogni cangianti, come le ultime copertine dei suoi libri che, a seconda del riflesso, restano tali o si trasformano in incubo.

Bravo Stephen, mi hai inchiodato ancora alla pagina! Letto in due sere cercando di centellinarlo come fosse un Cognac millesimato.

#Simenon Georges – Il piccolo libraio di Archangelsk



Autore: #Simenon Georges

Anno pubblicazione: 1956

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.


Mediglia, 29 luglio 2020

#ILibrofili #IClassiciDelLunedì

#Simenon – Il piccolo libraio di Archangelsk. Una persona sparisce, un'altra comincia a mentire, quasi tutti a sospettare.

 

Grazie all’impianto narrativo, al liminare fra racconto e giallo, veniamo messi a parte del vissuto interiore del protagonista che conduce un'esistenza sommessa e placida, all’apparenza poco interessante. Ma è questa la forza dell’opera. Ben presto scopriamo che sono queste le vite che meglio si prestano a celare segreti dannatamente interessanti, vite che soggiacciono più facilmente a scendere a compromessi morali profondi e duraturi, ma molto umani. Compromessi che le esistenze “vincenti” nemmeno immaginano.

In un crescendo dagli echi kafkiani, la rete della trama si stringe coralmente attorno al protagonista e all'unico destino che egli riesce a immaginare per sé. Un destino cui giunge attraverso il dipanarsi di ricordi, nostalgie, dolorose assenze e silenti prese di coscienza circa la propria esistenza: presente, passata e futura. Quella sparizione improvvisa diventa il foro da cui filtra il dubbio, che fra entrare in risonanza la diga della sopportazione del piccolo libraio, costretto a tracciare in silenzio e in solitudine un bilancio non più rinviabile sulla propria esistenza. Su una vita spesa nel tentativo (riuscito?) di divenire parte integrante di una piazzetta con mercato di un paesino per la quale ha sempre nutrito autentico amore; l’unico posto che, invero, gli viene in mente quando pensa alla parola casa. Lo stesso luogo con cui dovrà, infine, fare i conti. Sarà riuscito a divenirne parte? Ma soprattutto, sarà riuscito a percepirsi davvero uno di loro?

Simenon, a modo suo, ci mostra come "dietro ogni (uomo solo) matto c'è un villaggio".


#Stoner – John Williams



Autore: John Williams

Anno pubblicazione: 2012

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.

 

Riccione, 23 luglio 2020

Stoner si aggira durante la sua esistenza in un mondo borghese, quello della docenza universitaria americana.
 L'autore ci parla del protagonista dalla sua nascita fino alla sua morte, coinvolgendoci in tutti gli snodi esistenziali più significativi della sua parabola di vita.
Lungo la narrazione ci imbattiamo nella descrizione di un mondo borghese, del quale Stoner consuma i pasti, ma non gratuitamente.
Sì, perché Stoner nasce "poveraccio" e da questa condizione non si riuscirà mai, davvero, ad emancipare. 
Stoner ha una consapevolezza costitutiva e autorealizzante della non gratuità della sua condizione borghese. Egli può vivere da borghese. Lo può fare però, soltanto al prezzo di non alzare quasi mai la testa. 
Non nei confronti di una moglie che lo vessa, di un ambiente universitario che soffoca i sui sentimenti più genuini e le sue legittime aspirazioni di carriera. 
Stoner frequenterà per tutta la vita adulta un ambiente upper, ma non gli apparterrà mai, nonostante ci si sia votato per più di quarant'anni. 
Pochi romanzi sono riusciti a farmi simpatizzare così profondamente e silenziosamente con il protagonista, forse nessuno.
Stoner siamo noi. La bravura dell'autore sta proprio nel riuscire a schiodarci dal nostro essere lettori per immaginare per qualche frazione di secondo di sostituirci a lui. Lui è talmente inerte e stoico lungo il dipanarsi della sua parabola vitale, che però ha fortemente voluto, da obbligare il lettore ad osservarlo, pensando, a volte, che lui avrebbe fatto di più. Altre volte lasciandolo ammirato nel constatare la saggezza della passività resiliente di Stoner. 

Un romanzo che ricorre rarissimamente all'utilizzo del discorso diretto, ma che riesce a non farlo mancare.

Williams è stato molto abile. Perché ha utilizzato per farci conoscere la sua filosofia operativa di scrittore (come la definiva Jack London) un protagonista che la dimostra per assurdo.
Di qui il senso di irritazione che suscita in noi, ma al contempo la condivisione complessiva dell'opera (filosofia operativa di vita), che resta, beninteso, anche molto ben realizzata.