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L’#OUTSIDER (saggio)

 Autore: Colin Wilson

Anno pubblicazione: 1956




Cosa accomuna Raskolnikov, Alëša Karamazov, Van Gogh, Nietzsche e Ramakrishna, solo per citarne alcuni? Essere outsider!

Ma cosa guida un outsider facendone un outsider? Cosa cerca egli? E cosa potrebbe guadagnare se riuscisse nel suo intento? Soprattutto, è ragionevole sperare che possa riuscirci?

Questi e altri interrogativi costituiscono la matrice dell’avvincente excursus che l’autore ha l’ambizione di indagare e di tentare di spiegare con questa sua opera giovanile.

L’opera, apparsa in Inghilterra nel 1956, fu scritta “in una sala di lettura del British Museum”  in un periodo in cui l’autore, non ancora venticinquenne, dormiva in un sacco a pelo in un parco di Londra.

L’autore pare che abbia avuto il privilegio di essere stato toccato da uno stato di grazia quando l’ha scritta. Infatti, dopo di essa non s’impose più all’attenzione del pubblico e della critica con tanta forza (chissà che forse, tenendo presenti alcuni esiti del saggio sugli outsider, ciò non sia stato il frutto di una scelta deliberata).

Volendo trovare un difetto a quest’opera, forse, si potrebbe tacciarla, nella sua analisi, di tendere a ridurre in modo un po’ troppo semplicistico e “normalizzante” l’“outsiderietà” tutta. Pretendendo di incanalarla forzosamente all’interno di certi binari sistematizzanti. Cionondimeno, l’analisi risulta complessivamente originale e convincente e, nel suo dipanarsi, riesce a cogliere autentiche “gocce di splendore”.

Il testo giustappone e paragona vita, opere, ricerche e pensiero di artisti, scrittori, poeti e filosofi che accolgono in sé, come nelle loro opere la cifra dell’outsider. Fra essi incontriamo Van Gogh, Wells, Dostoevskij, Hesse, Gurdjieff, Barbusse, Hemingway, Blake, Yeats, Nietzsche e Sartre, fra gli altri. Tutti accomunati da un file rouge, una tensione a seguire una certa ricerca di tipo esistenziale.

A chi consiglio la lettura questo saggio?

A tutti coloro che leggendo queste parole si sentano toccati nelle proprie corde più profonde, esistenziali, per l’appunto. A tutti coloro che si sentano chiamati in causa da questi argomenti; sia per simpatia esistenziale nei confronti di questi uomini o personaggi, sia riguardo all’aver sperimentato o allo sperimentare questa condizione di vita, quale che sia la realtà nella quale siano attualmente immersi.

Il motto Vivi nascosto di Seneca, secondo l’autore, per l’outsider sembra fare il paio con la vita civile “occidentale” e con i suoi “valori” fondanti. La necessità di vivere nascosti pare meno accentuata, invece, per l’outsider calato nell’antica civiltà orientale, come si vedrà. Ma torniamo alla prima domanda: l’outsider cosa cerca, ci chiedevamo?

Per molti di essi l’essere outsider, lungi dal costituire una debolezza, rappresenta più un eccesso di energia che, fluendo attraverso i loro corpi e le loro menti fisiche, finisce per consumare entrambi. Si tratta di umani rari, duri come i diamanti fra le pietre, ma altrettanto fragili. Fragili di una fragilità che conferisce loro al contempo una eccezionale capacità di provar piacere e dolore e che, pertanto, s’impone de facto nelle loro esistenze quale “imperativo categorico” e ricerca dello “Spirito Assoluto” per finalmente riuscire a sentire meglio, alle volte semplicemente meno. Elevazione che, secondo l’autore, può seguire almeno due vie: quella religiosa o quella aconfessionale che insegue la conoscenza dell’assoluto: il tentativo di cogliere, si potrebbe dire, a livello personale la progredente spirale hegeliana che tenta di abbracciare il tutto, avendo ben presente che la realtà è tutto ciò che non è de-finito in cristallizzate tesi e antitesi, ma soltanto stabilità della sintesi, in continuo mutare e perciò unica realtà sempre presente. Tutto ciò, in questi outsider, si traduce in visoni e opere del reale che finalmente appare loro  come un continuum di forme in inesausto cambiamento. Acquisizioni che, una volta guadagnate, conducono all’Illuminazione di Siddharta, in Oriente, alle spirali dei campi di girasoli ai cieli stellati colti dai dipinti di Van Gogh, all’epifanica disperazione di Alëša Karamazov che si getta a terra in un campo, descritta da Dostoevskij, e finanche alle lacrime commosse che improvvisamente solcano il volto di Nietzsche a Torino, in Occidente.

Ma non m’inoltro oltre, per non disvelare altro.

#MARCOVALDO (romanzo)

 

Autore: Italo Calvino

Anno pubblicazione: 1963

Io narrante, punto di vista e persona: terza persona.




Il mio primo incontro con “Marcovaldo” fu alle elementari: ho un ricordo della mia maestra intenta a leggercelo mentre dalle finestre con telaio in acciaio della nostra classe vedevamo, e sentivamo, scrosciare temporali primaverili.

Fin dall’impianto dell’opera è chiaro il valore che l’autore attribuisce alla natura. Infatti i racconti sono raggruppati secondo le stagioni e loro cicli. Nonostante il testo tratti dell’ancestrale rapporto esistente fra l’uomo, l’ambiente naturale e gli altri suoi abitanti, tematiche di per sé eterne, Calvino riesce a realizzare un affresco molto preciso dei luoghi e del tempo in cui sono ambientate le vicende del nostro eroe. Fra le sue pagine si respira l’aria che tirava nelle grandi città del nord Italia a cavallo fra gli alternativi ma ancora molto tradizionali anni ’60 e gli industriali e moderni anni ’70

I racconti che compongono il romanzo sono leggibili e godibili anche separatamente. In essi l’autore rende con rara delicatezza umana e naturalistica, quasi fiabesca, l’impatto socioambientale che cattivi comportamenti sociali e industriali, in via di progressiva e massiccia diffusione proprio in quegli anni, stavano determinavano e avrebbero determinato sul cittadino medio, sui suoi cari, e sulle loro possibilità di vivere vite umanamente e naturalmente sane.

Con il suo stile divertente, leggero e iconico, l’autore ci  racconta dell’inquinamento pervasivo, dello strazio della natura a tutto tondo e del progressivo, ma inesorabile, incupimento sociale che essi determinano fra i membri di una società sempre più ricca materialmente e sempre più povera in termini naturali. Lo fa attraverso l’operaio e capofamiglia Marcovaldo: entusiasta malinconico, nostalgico della natura, che non accetta di vedersi esiliato da lei né di vederla esiliata e che, pertanto, non perde occasione per stringersi ad essa, quand'anche ciò si rivelasse un abbraccio mefitico. L’inesauribile, ingenua e saggia, al contempo, tensione che anima Marcovaldo e la sua famiglia non si arrende e non rinuncia al tentativo di perseguire la sua frequentazione quotidiana con la natura. Tutte le occasioni di vivere la natura che le si presentano sono buone. Calvino dipinge un affresco leggero, ma mai superficiale, anzi, profondo come solo sanno esserlo le storie semplici. Lambisce tematiche pervasive riuscendo a cingerle con una soffusa aurea favolistica, spolverata d’ingenuità, con riflessi a volte comici, altre drammatici, ma mai assolutoria nei confronti di quei comportamenti umani che stanno, atto dopo atto, distruggendo questo sacro fragile equilibrio cui tutti noi dobbiamo la vita.

 

 

 

“L’amore per la natura di Marcovaldo è quello che può nascere solo in un uomo di città [] questo estraneo alla città è il cittadino per eccellenza”

(Dalla presentazione di Calvino all’edizione del 1966)

#LOLITA (romanzo)

 Autore: Vladimir Vladimirovič Nabokov

Anno pubblicazione: 1955

Io narrante, punto di vista e persona: prima persona, punto di vista del protagonista maschile.

Numero indicativo pagine: 360




Lolita rappresenta il Cuore di Tenebra di un maschio “incivilito”. Diagnosi e prognosi di una traiettoria esistenziale. Quella di un uomo inserito in una società ancora pervasa da una certa morale pur professandosene libera. Morale che egli, proditoriamente, decide di refutare, per restare fedele soltanto alle sue pulsioni.

 

 

Il prof. Humbert Humbert, inserito nell’America statunitense del secolo scorso, paese dalle vedute e dalle possibilità apparentemente sconfinate, sceglie di riconoscere e rispettare soltanto i suoi desideri. In particolare quelli legati alla sfera della libido sessuale. Quest’angolo del suo essere assurge a maître a penser della sua esistenza conducendolo fino ad ammalarsi e a dover essere ricoverato. Questa postura esistenziale non tarderà a porlo ben al di fuori della morale del paese che lo ospita.

Nonostante nel caso in specie sia evidente dove risieda la nevrosi, ad una lettura attenta non può non sfuggire che l’impostazione morale puritana americana, o meglio statunitense, come non mancano mai di sottolineare, e a ragione veduta, gli altri americani non statunitensi, ha una forte connotazione giusnaturalista che più che liberale risulta impegnata a propugnare un modo di vivere “più giusto degli altri”. Chissà che l’autore, di origini russe, abbia voluto anche denunciare questo… Certamente il romanzo offre il destro per una riflessione. Argomento più che mai attuale per tutte le democrazie contemporanee.

Tornando all’opera, il prof. Humbert Humbert sposa a tal punto la sua causa da giungere a calpestare non soltanto le convenzioni dell’apparentemente più liberale società di quel tempo, ma persino a forzare la propria natura umana e biologica che, nel suo naturale invecchiare, gli chiederebbe venia rispetto a quel suo appetito insaziabile. Tuttavia egli, sordo in primo luogo verso i suoi bisogni autentici non glielo concede ed eleva tale scelta a direzione e insieme limite della sua parabola esistenziale. Finisce così per trasformare la sua esistenza (e quella di Lolita) in un solitario avamposto, teso alla disperata difesa di quell’arbitrio (libero?) che non cede a nulla. Giunge persino a immaginarsi il “piacere” che avrebbe potuto ricavar dal compiere gesti che, se attuati, risulterebbero persino doppiamente incestuosi, se così si può dire: s’immagina anziano sedurre la figlia che potrebbe avere, un domani, dalla sua stessa figliastra.

La scelta di assurgere a unica musa della propria esistenza la propria libido, lo isolerà sempre più. Ciononostante egli, simile a un moderno Icaro, procederà.  Il professor Humbert Humbert sogna e vive il suo sogno che trascolora in un incubo conducendo con sé per mano la piccola Lolita, ormai non più tanto innocente, e con loro te, caro lettore. Lo fa viaggiando in auto per Motel e Hotel disseminati per le solitarie e sterminate strade degli USA, stavolta sì, in un delirio di libertà contagiante.

L’obiettivo anticonformista di Nabokov è stilisticamente centrato grazie all’adozione del punto di vista tutto interno al protagonista maschile che, per qualcuno toccato da eccesso d’immedesimazione, diventa quasi condivisibile.

IL #CALAMAROGIGANTE (narrazione)

 Autore: Fabio Genovesi

Anno pubblicazione: 2021

Io narrante, punto di vista e persona: prima e terza persona, alternate.





L’autore, con accenti di realismo magico, alterna storie di ricercatori, scoperte, avvistamenti e ricerche di animali criptici che formano parte della storia della Criptozoologia, con aneddoti personali, aventi anch’essi sfaccettature misteriose. Così facendo invita il lettore a riflettere sul valore che ha la dimensione fantastica, sia per l’individuo che rispetto all’elaborazione della tradizione popolare.

Il filo conduttore della narrazione è uno dei soggetti più iconici della Criptozoologia: il calamaro gigante. Un essere gigantesco del quale, nonostante la mole, fino all’inizio del ‘900, la scienza metteva in dubbio persino l’esistenza. Che si trattasse, già allora di un problema di deficit d’immaginazione? Chissà..

Se il valore della conoscenza razionale e scientifica è indubbio per determinare un innalzamento del livello, almeno materiale dell’esistenza umana, resta viva l’esigenza, altrettanto umana,  di riuscire ancora a sperare di poter immaginare luoghi reali di questo pianeta, ancora ricchi di magia, lontani dall’ordinarietà e dalla ripetitività dell’umano essere, che tutto omologa. Luoghi che ci consentano una pausa da noi umani. Dove o dei quali fantasticare, includendo in queste fantasie gli strani esseri che li abitano. Il continuo arretrare delle porzioni di mondo inesplorate ci impoverisce, giorno dopo giorno, oltre che di risorse naturali anche di queste oasi reali di ristoro per la fantasia.

Concludo con una riflessione sulla contraddittorietà dell’agire umano che non risparmia la stessa Criptozoologia: più questi fantastici angoli di mondo vengono illuminati dalla scienza e dalla divulgazione e meno spazio resta a quei sogni reali, e ai loro sognatori grandi e piccini per trovarvi rifugio.

La scelta di un registro colloquiale, al limite, della chiacchierata, se dona fascino affabulatorio alla narrazione, la penalizza da un punto di vista della qualità letteraria e scientifica cui, forse, avrebbe potuto ambire.

LA GRANDE FORESTA (racconti)

 Autore: William #Faulkner

Anno pubblicazione: 1955

Io narrante, punto di vista e persona: terza e prima persona, varia al variare dei racconti.

 


Mediglia, 24 aprile 2021

Se volete comprendere com'è che i cacciatori prima dell'inizio del ‘900 erano visti come gli unici veri ecologisti;

se volete comprendere come raccontando di faccende di un luogo ben preciso si possano fissare  su pagina temi universali;

se volete comprendere perché proprio da lui abbia scelto di “attingere” Ernest  Hemingway;

allora dovete leggere "La grande foresta" di William Faulkner.

 

Faulkner al termine della sua carriera riaduna e incastona quattro racconti lunghi, scritti in periodi diversi della sua vita, fra altri cinque brevi scritti incompiuti. Così facendo ci mette a parte del peso esistenziale di un’entità primordiale più grande degli esseri umani, bianchi e dalla pellerossa e del depauperamento che questi sono stati in grado, nel corso di soltanto pochi decenni, di infliggerle.

In Lei che le creature che la abitano acquisiscono auree mitiche, simboliche e ancestrali.

In Lei si sono snodati i fatti salienti che hanno cesellato intere generazioni bianche e dalla pellerossa, per secoli.

Questi episodi documentano lo scandirsi delle tappe fondamentali dell’esistenza di un manipolo di esseri umani (solo maschi, ai tempi era così): la conquista dell’adolescenza, la misurata maturità e la saggia vecchiaia.

La vera protagonista di queste storie è lei: La Grande Foresta. In lei si inizia un giovane poco più che bambino, che accompagna per la prima volta i grandi all’annuale caccia all'orso novembrina, della quale, fin da che ha avuto memoria, ha sentito raccontare attorno ai fuochi e ai camini.

Faranno seguito, ad anni di distanza, altre due scene tratte da altrettante cacce all’orso e al cervo, che vedranno protagonista la stessa comunità, nella quale, secondo la legge della ruota della vita, i ruoli dei protagonisti si spostano, fino a scambiarsi: da giovani spettatori a maturi protagonisti per tornare ad essere ancora una volta spettatori, anziani stavolta. Sempre incorniciati in quel quadro di senso che rappresenta La Grande Foresta.

Faulkner ha voluto accostare, al termine della sua carriera, tre epoche successive, quattro racconti scritti da lui stesso in momenti diversi della sua vita, forse rendendosi conto ex post che tutti avevano lei per protagonista: la Grande Foresta.

Ogni novembre, s’interrompe l’alacre lavorio della terra, tutti gli uomini adulti e sani si recano a vivere per quattordici giorni sotto lo stesso campo base, per celebrare questo rituale laico che scandisce le loro stagioni, le loro esistenze. Stavolta il cervo è scappato. Un giovane riflette:

“Ci sarebbero voluti ancora undici mesi e due settimane per correre di nuovo così  lontano e così veloce. Insomma, ero contento per lo stesso identico motivo per cui noi eravamo dispiaciuti, e così a un tratto pensai che forse piantare e coltivare e poi raccogliere avena e cotone e fagioli non era solo qualcosa che io e il signor Ernest facevamo per trecentocinquantun giorni per passare il tempo prima di tornare a caccia, ma era qualcosa che avevamo il dovere di fare e fare bene, e sul serio, durante tutti quanti i trecentociquantun giorni, per guadagnarci il diritto di tornare nella grande foresta e andare a caccia per i restanti quattordici; e i quattordici giorni in cui il vecchio cervo correva davanti ai cani non erano solo un passatempo per aspettare quei trecentociquantun giorni in cui non avrebbe dovuto farlo, ma quel correre e rischiare davanti a fucili e cani era qualcosa che aveva il dovere di fare per guadagnarsi il diritto a non essere disturbato per i restanti trecentociquantuno”

Anfitrione e Padrona assoluti di queste, celebrazioni, sono il Grande Fiume e la Grande Foresta. Attraverso il dipanarsi della narrazione l'occhio sapiente, saggio e sensibile dello scrittore giustappone elementi che ci restituiscono senza indulgere in moralismi tutta l’enormità dell’usurpazione da noi uomini perpetrata nei suoi (ma anche infine nei nostri stessi) confronti.

Quella stessa Grande foresta che nei ricordi degli anziani era incommensurabile e non distava dal paese che alcuni chilometri, percorsi allora in carro, già al termine dei racconti, soltanto qualche decina d’anni più tardi, dista diverse centinaia di chilometri e, anno dopo anno, stagione dopo stagione, queste distanze crescono ancora.

La Grande Foresta viene progressivamente ridimensionata, confinata, addomesticata, estirpata e sostituita da sterminati campi monocoltura di cotone e dai binari della ferrovia. Al punto che, nell’ultima parte della narrazione, anche servendosi delle prime automobili, agli uomini servono diverse ore per raggiungerla là, in quell'ultimo lembo vergine rimastole e rimastoci: quello protetto dal Grande Fiume, suo compagno.

Anno dopo anno, confinata in spazi sempre più angusti, falcidiata dal disboscamento dei terreni, dal loro spianamento per la produzione su larga scala del cotone e per far passare il treno, la Grande Foresta, tanto sterminata da ospitare creature enormi, fiere e leggendarie, in grado di evocare negli uomini rispetto, come il vecchio orso Ben dalla zampa storta, cervi dai palchi maestosi e puma, si riduce a un luogo piccolo, sotto il controllo dell’incauto uomo.

“Più grande e più antica di qualsiasi documento d’archivio – dell’uomo bianco abbastanza vanesio da credere di averne comprato un qualche pezzo, dell’indiano abbastanza temerario da dare a bere che un qualsiasi pezzo fosse suo da poterlo vendere; più antica persino del vecchio Ikkemotubbe, il capo Chicksaw”

Lembo dopo lembo fu sgretolata e ridotta a un ultimo spicchio di terra verde difesa dal Grande Fiume, suo compagno, allontanata dagli umani, dalle loro vite, dalle loro tradizioni e dalla loro considerazione.

Faulkner anticipa il problema della convivenza fra uomo industriale e resto dei viventi: animali e vegetali. Dimostra una mirabile sensibilità ecologica ante litteram, che gli consente di distinguere la differenza fra verdi: denuncia la sostituzione di uno autoctono, naturale, selvaggio e per questo ricco di biodiversità endemica, tale da fungere da habitat per altrettanti endemismi animali, con un altro verde, monocolore e monocolturale, di matrice per quanto vegetale, già industriale con tutto lo snaturamento e lo squilibrio di rapporti fra viventi e habitat che impone.

#PRINCIPIANTI (racconti)

 Autore: Raymond #Carver

Anno pubblicazione: 2009

Io narrante, punto di vista e persona: terza e prima persona, varia al variare dei racconti.

 

Mediglia, 3 gennaio 2021

Potremmo descriverli tutti con una sola frase: racconti dei pieni, dei vuoti e della psichedelia schizofrenica degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti d’America.

Sì, perché Carver è davvero un intagliatore (carver = intagliatore). Infatti attraverso una tecnica narrativa potente quanto scarna, fatta essa stessa di pieni e vuoti significativi, a volte feroci, riesce a restituirci le esistenze condotte da una certa parte di quella società americana, una società nel complesso mai così opulenta materialmente, ma valorialmente vuota, allo sbando. Ostaggio per la prima volta di questa dicotomia. Il vuoto è così vuoto proprio perché contrapposto ad altrettanto vertiginose nuove e diffuse pienezze materiali, finalmente alla portata dei più grazie dal boom economico. Una ricchezza che riempiva le tasche, le case, le cascine, le proprietà in genere. Uno riempirsi non solo materiale, ma potenziale: che apriva scenari di nuove insperate possibilità per molti. Ma è qui che l’equilibrio salta: a questo riempirsi materiale spesso non fa da contrafforte un altrettanto robusta capacità di gestione personale e valoriale di queste ulteriori disponibilità reali e potenziali. Valori che avrebbero, forse, potuto guidare il godimento di questa nuova ricchezza in maniera più saggia. Insomma, un mondo pieno di possibilità per moltissimi, ma popolato da principianti. E Carver ce ne dà conto, sistemato proprio da quel lato della società, e lo fa in modo specchiato. Riempie le pagine di particolari incisivi per poi svuotarle sapientemente di altri, creando mancanze feroci, assenze potenti, che saltano all’occhio. Riesce a creare veri e propri scenari di un orrore ordinario e diffuso. Un orrore puro, feroce, ma molto umano, troppo umano, direbbe qualcuno, nel suo idiota e ingenuo reiterarsi. I suoi racconti sono alter ego verbali delle opere di Edward Hopper. L’alternarsi e l’ibridarsi di questi pieni e vuoti crea atmosfere psichedeliche mentre la loro alterità fatta del rifiuto di un riconoscimento reciproco ne denota la schizofrenia. Tutto ciò si rispecchia nel linguaggio di Carver che, nello scriverne, ne diviene testimone e mentore interno.

Consigliato a tutti coloro che sono affascinati da Sogno Americano che fu, anche nei suoi aspetti più deteriori.

#StephenKing – Elevation

 




 
Autore: #StephenKing

Anno pubblicazione: 2019

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.


Mediglia, 18 novembre 2020

La storia di un uomo che perde inspiegabilmente peso. E con esso acquisisce levità. Levità nei confronti dell’esistenza. Man mano che s’alleggerisce percepisce quanto il peso della materialità  opprima. King poi compie un altro piccolo miracolo ed eleva anche noi lettori. Infatti, ancora una volta, riesce ad alleggerire il peso delle pagine del suo scritto; talmente che quando cominci a sfogliarle, fatichi a smettere, sfilano lievi al tocco e all’occhio.

Nel suo “On writing” confessò di sbirciare la moglie Tabitha mentre legge le sue prime stesure, quando non se ne avvede, per scoprire in quali punti posi la bozza. Lo fa perché sostiene che quelli sono i punti in cui la tensione cala. Lì va ad incidere con le revisioni. Non posso che constatare che sia riuscito nel suo intento.

Questo romanzo breve o racconto lungo, data l’usuale mole delle opere di King, affronta alla maniera del Re il concetto del trapasso e del rito che comporta. Il tutto calato nell’esistenza di un americano medio, abitante di un paesino archetipico (talmente tipico da non esistere ed essere stato concepito dalla mente dell’autore e poi utilizzato svariate volte nei suoi romanzi: Castle Rock).

Anche questa volta, la forza del romanzo è “tutta” qui. King riesce a raccontare ancora l'America contemporanea, o meglio, gli Stati Uniti, come mi fecero notare amici Argentini una volta. Il paese autentico, fatto di persone. Ognuna con i suoi rapporti umani fatti di solidarietà e contrasti, di presenze e grandi assenze. Ci narra di cittadine dove possono nascere facilmente amicizie e altrettanto facilmente sgretolarsi. Luoghi che sono l’appendice di una società i cui abitanti sono abituati a concepirsi come disancorati da riferimenti, siano essi una casa, dei genitori, amici o luoghi. Persone che consapevoli di ciò, hanno avuto necessità di compensare e sviluppare la capacità di stringere con altrettanta facilità nouvi rapporti profondi.

Esistenze in movimento figlie di un modello dedito alla ricerca della fortuna materiale. King, così, mentre ci culla nel loro sogno, coglie l’occasione per descrivere le traiettorie di queste esistenze, che più o meno ricche materialmente, restano tutte proiettate in quest’afflato. Per scoprire che il Sogno resta tale, sia che venga coronato, sia che non ci si riesca, proprio perché puramente e solamente materiale, non vivo, consolatorio. Così King, mentre ci parla di storie di statunitensi ci racconta del Sogno americano; sempre dietro l’angolo, e alla portata di tutti in teoria, ma i biglietti vincenti sono pochi come nelle lotterie a premi.

Tutti possono partecipare, e per chi non viene estratto resta l’incubo americano, suo contraltare altrettanto alla portata di tutti, ma molto più frequentato. Che poi altro non è che il conto da pagare pro capite per mettere insieme il monte premi per i relativamente scarsi biglietti vincenti. Lo salderà la maggioranza, fatta di americani che erano, magari, anche sulla strada buona ma, hanno incespicato, perdendo colpi (o mostrando umanità) non riuscendo così ad imbroccare il proprio Sogno. Ecco che allora, dalle sue ceneri, prende forma qualche altra fantasia distorta, deviante, emersa da qualche anfratto dell’immaginario, antri dei quali il Re è il Re. Sogni cangianti, come le ultime copertine dei suoi libri che, a seconda del riflesso, restano tali o si trasformano in incubo.

Bravo Stephen, mi hai inchiodato ancora alla pagina! Letto in due sere cercando di centellinarlo come fosse un Cognac millesimato.

#Simenon Georges – Il piccolo libraio di Archangelsk



Autore: #Simenon Georges

Anno pubblicazione: 1956

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.


Mediglia, 29 luglio 2020

#ILibrofili #IClassiciDelLunedì

#Simenon – Il piccolo libraio di Archangelsk. Una persona sparisce, un'altra comincia a mentire, quasi tutti a sospettare.

 

Grazie all’impianto narrativo, al liminare fra racconto e giallo, veniamo messi a parte del vissuto interiore del protagonista che conduce un'esistenza sommessa e placida, all’apparenza poco interessante. Ma è questa la forza dell’opera. Ben presto scopriamo che sono queste le vite che meglio si prestano a celare segreti dannatamente interessanti, vite che soggiacciono più facilmente a scendere a compromessi morali profondi e duraturi, ma molto umani. Compromessi che le esistenze “vincenti” nemmeno immaginano.

In un crescendo dagli echi kafkiani, la rete della trama si stringe coralmente attorno al protagonista e all'unico destino che egli riesce a immaginare per sé. Un destino cui giunge attraverso il dipanarsi di ricordi, nostalgie, dolorose assenze e silenti prese di coscienza circa la propria esistenza: presente, passata e futura. Quella sparizione improvvisa diventa il foro da cui filtra il dubbio, che fra entrare in risonanza la diga della sopportazione del piccolo libraio, costretto a tracciare in silenzio e in solitudine un bilancio non più rinviabile sulla propria esistenza. Su una vita spesa nel tentativo (riuscito?) di divenire parte integrante di una piazzetta con mercato di un paesino per la quale ha sempre nutrito autentico amore; l’unico posto che, invero, gli viene in mente quando pensa alla parola casa. Lo stesso luogo con cui dovrà, infine, fare i conti. Sarà riuscito a divenirne parte? Ma soprattutto, sarà riuscito a percepirsi davvero uno di loro?

Simenon, a modo suo, ci mostra come "dietro ogni (uomo solo) matto c'è un villaggio".


#Stoner – John Williams



Autore: John Williams

Anno pubblicazione: 2012

Io narrante, punto di vista e persona: quasi esclusivamente scritto con il punto di vista del protagonista - terza persona.

 

Riccione, 23 luglio 2020

Stoner si aggira durante la sua esistenza in un mondo borghese, quello della docenza universitaria americana.
 L'autore ci parla del protagonista dalla sua nascita fino alla sua morte, coinvolgendoci in tutti gli snodi esistenziali più significativi della sua parabola di vita.
Lungo la narrazione ci imbattiamo nella descrizione di un mondo borghese, del quale Stoner consuma i pasti, ma non gratuitamente.
Sì, perché Stoner nasce "poveraccio" e da questa condizione non si riuscirà mai, davvero, ad emancipare. 
Stoner ha una consapevolezza costitutiva e autorealizzante della non gratuità della sua condizione borghese. Egli può vivere da borghese. Lo può fare però, soltanto al prezzo di non alzare quasi mai la testa. 
Non nei confronti di una moglie che lo vessa, di un ambiente universitario che soffoca i sui sentimenti più genuini e le sue legittime aspirazioni di carriera. 
Stoner frequenterà per tutta la vita adulta un ambiente upper, ma non gli apparterrà mai, nonostante ci si sia votato per più di quarant'anni. 
Pochi romanzi sono riusciti a farmi simpatizzare così profondamente e silenziosamente con il protagonista, forse nessuno.
Stoner siamo noi. La bravura dell'autore sta proprio nel riuscire a schiodarci dal nostro essere lettori per immaginare per qualche frazione di secondo di sostituirci a lui. Lui è talmente inerte e stoico lungo il dipanarsi della sua parabola vitale, che però ha fortemente voluto, da obbligare il lettore ad osservarlo, pensando, a volte, che lui avrebbe fatto di più. Altre volte lasciandolo ammirato nel constatare la saggezza della passività resiliente di Stoner. 

Un romanzo che ricorre rarissimamente all'utilizzo del discorso diretto, ma che riesce a non farlo mancare.

Williams è stato molto abile. Perché ha utilizzato per farci conoscere la sua filosofia operativa di scrittore (come la definiva Jack London) un protagonista che la dimostra per assurdo.
Di qui il senso di irritazione che suscita in noi, ma al contempo la condivisione complessiva dell'opera (filosofia operativa di vita), che resta, beninteso, anche molto ben realizzata.