Il #complottismo è come le ciliegie

 Mediglia, 21 giugno 2021

 

“Le persone credono ai complotti per non accettare la realtà”

U. Eco

https://thevision.com/cultura/umberto-eco-attualita/?fbclid=IwAR1zAUaocwFDRR9__ItqKxpdXXoB0u_m0VI_0TFesiF9u4x0Fnxv7jja8xs

 


D'accordo con Eco in pieno. Aggiungo un’osservazione non fatta dall’eminente semiologo. Un altro possibile motivo per cui molti amano il complottismo, a mio modo di vedere, è dato dal fatto che assume SEMPRE l'essere umano quale protagonista è regista della realtà. L'antropocentrismo che ci contraddistingue e rincuora anche nelle teorie complottiste più spaventevoli (virus creati e diffusi dall'uomo, per esempio) se da un lato è inquietante, dall'altro è consolante perché vede l'uomo (alcuni perlomeno) ancora una volta “deus ex machina”, seppur perversi, nell'orchestrazione degli eventi.

Ecco che il complottismo può essere letto così anche come una sorta di prodotto di scarto dell’Illuminismo. La fede dell’uomo nell'uomo che sa, che governa, che è già a conoscenza, come gli avvistamenti di UFO non diffusi, tuttavia già conosciuti dai Governi dei paesi più potenti.

Paradossalmente il complottismo mette in pace rispetto al bisogno di protagonismo della specie Sapiens.

Così a coloro ai quali fa troppa paura accettare che siamo, nostro malgrado, fondamentalmente e prima di tutto, tutti sottoposti a Leggi più grandi di noi, ecco che il complottismo viene in soccorso travestito da razionale coraggio di analizzare la realtà.

Ma il complottista, sempre a mio modesto parere, lungi dall'essere un coraggioso che "pre-vede" ciò che gli altri si rifiutano ancora di concepire, il più delle volte, è un romantico. È proprio lui il primo che si rifiuta di prendere atto della pochezza della nostra voce in capitolo in fatto di Destino (di tutta l’umanità).

Concludendo, il complottismo assolve a diverse necessità di questi uomini:

consente loro di avere l’impressione che il Destino sia sempre e comunque in mano all’essere umano;

consente di uscire dal timore e dall’ansia che una vita non completamente controllabile genera dall’uomo genera;

consente di trovare un ipotetico capro espiatorio che permetta di trasformare ansia e timore in rabbia da direzionare all’esterno di sé, avendo l’impressione di riuscire a fare la differenza su quel tema che li relegava allo scomodo ruolo di passivi spettatori e vittime.

“Va bene c’è una pandemia, ma sai che c’è?! L’abbiamo creata noi”

Beninteso, non lo escludo nemmeno io. Ma da qui a dire che l’abbiamo anche volontariamente diffusa e governata noi, il passo è molto lungo. È possibile forse persino probabile, che il virus sia stato creato in laboratorio. Ma è altrettanto certo che non rientrava nella volontà umana diffonderlo al suo esterno, soprattutto in modo da rovinare per prima l’esistenza del paese che l’avrebbe diffuso. Ma già vedo i complottisti dire che “sono stati gli americani a portarlo a Huan”. Perché il complottismo è come le ciliegie. Una spiegazione a un aspetto di esso, getta le basi per la teoria successiva.

LA GRANDE FORESTA (racconti)

 Autore: William #Faulkner

Anno pubblicazione: 1955

Io narrante, punto di vista e persona: terza e prima persona, varia al variare dei racconti.

 


Mediglia, 24 aprile 2021

Se volete comprendere com'è che i cacciatori prima dell'inizio del ‘900 erano visti come gli unici veri ecologisti;

se volete comprendere come raccontando di faccende di un luogo ben preciso si possano fissare  su pagina temi universali;

se volete comprendere perché proprio da lui abbia scelto di “attingere” Ernest  Hemingway;

allora dovete leggere "La grande foresta" di William Faulkner.

 

Faulkner al termine della sua carriera riaduna e incastona quattro racconti lunghi, scritti in periodi diversi della sua vita, fra altri cinque brevi scritti incompiuti. Così facendo ci mette a parte del peso esistenziale di un’entità primordiale più grande degli esseri umani, bianchi e dalla pellerossa e del depauperamento che questi sono stati in grado, nel corso di soltanto pochi decenni, di infliggerle.

In Lei che le creature che la abitano acquisiscono auree mitiche, simboliche e ancestrali.

In Lei si sono snodati i fatti salienti che hanno cesellato intere generazioni bianche e dalla pellerossa, per secoli.

Questi episodi documentano lo scandirsi delle tappe fondamentali dell’esistenza di un manipolo di esseri umani (solo maschi, ai tempi era così): la conquista dell’adolescenza, la misurata maturità e la saggia vecchiaia.

La vera protagonista di queste storie è lei: La Grande Foresta. In lei si inizia un giovane poco più che bambino, che accompagna per la prima volta i grandi all’annuale caccia all'orso novembrina, della quale, fin da che ha avuto memoria, ha sentito raccontare attorno ai fuochi e ai camini.

Faranno seguito, ad anni di distanza, altre due scene tratte da altrettante cacce all’orso e al cervo, che vedranno protagonista la stessa comunità, nella quale, secondo la legge della ruota della vita, i ruoli dei protagonisti si spostano, fino a scambiarsi: da giovani spettatori a maturi protagonisti per tornare ad essere ancora una volta spettatori, anziani stavolta. Sempre incorniciati in quel quadro di senso che rappresenta La Grande Foresta.

Faulkner ha voluto accostare, al termine della sua carriera, tre epoche successive, quattro racconti scritti da lui stesso in momenti diversi della sua vita, forse rendendosi conto ex post che tutti avevano lei per protagonista: la Grande Foresta.

Ogni novembre, s’interrompe l’alacre lavorio della terra, tutti gli uomini adulti e sani si recano a vivere per quattordici giorni sotto lo stesso campo base, per celebrare questo rituale laico che scandisce le loro stagioni, le loro esistenze. Stavolta il cervo è scappato. Un giovane riflette:

“Ci sarebbero voluti ancora undici mesi e due settimane per correre di nuovo così  lontano e così veloce. Insomma, ero contento per lo stesso identico motivo per cui noi eravamo dispiaciuti, e così a un tratto pensai che forse piantare e coltivare e poi raccogliere avena e cotone e fagioli non era solo qualcosa che io e il signor Ernest facevamo per trecentocinquantun giorni per passare il tempo prima di tornare a caccia, ma era qualcosa che avevamo il dovere di fare e fare bene, e sul serio, durante tutti quanti i trecentociquantun giorni, per guadagnarci il diritto di tornare nella grande foresta e andare a caccia per i restanti quattordici; e i quattordici giorni in cui il vecchio cervo correva davanti ai cani non erano solo un passatempo per aspettare quei trecentociquantun giorni in cui non avrebbe dovuto farlo, ma quel correre e rischiare davanti a fucili e cani era qualcosa che aveva il dovere di fare per guadagnarsi il diritto a non essere disturbato per i restanti trecentociquantuno”

Anfitrione e Padrona assoluti di queste, celebrazioni, sono il Grande Fiume e la Grande Foresta. Attraverso il dipanarsi della narrazione l'occhio sapiente, saggio e sensibile dello scrittore giustappone elementi che ci restituiscono senza indulgere in moralismi tutta l’enormità dell’usurpazione da noi uomini perpetrata nei suoi (ma anche infine nei nostri stessi) confronti.

Quella stessa Grande foresta che nei ricordi degli anziani era incommensurabile e non distava dal paese che alcuni chilometri, percorsi allora in carro, già al termine dei racconti, soltanto qualche decina d’anni più tardi, dista diverse centinaia di chilometri e, anno dopo anno, stagione dopo stagione, queste distanze crescono ancora.

La Grande Foresta viene progressivamente ridimensionata, confinata, addomesticata, estirpata e sostituita da sterminati campi monocoltura di cotone e dai binari della ferrovia. Al punto che, nell’ultima parte della narrazione, anche servendosi delle prime automobili, agli uomini servono diverse ore per raggiungerla là, in quell'ultimo lembo vergine rimastole e rimastoci: quello protetto dal Grande Fiume, suo compagno.

Anno dopo anno, confinata in spazi sempre più angusti, falcidiata dal disboscamento dei terreni, dal loro spianamento per la produzione su larga scala del cotone e per far passare il treno, la Grande Foresta, tanto sterminata da ospitare creature enormi, fiere e leggendarie, in grado di evocare negli uomini rispetto, come il vecchio orso Ben dalla zampa storta, cervi dai palchi maestosi e puma, si riduce a un luogo piccolo, sotto il controllo dell’incauto uomo.

“Più grande e più antica di qualsiasi documento d’archivio – dell’uomo bianco abbastanza vanesio da credere di averne comprato un qualche pezzo, dell’indiano abbastanza temerario da dare a bere che un qualsiasi pezzo fosse suo da poterlo vendere; più antica persino del vecchio Ikkemotubbe, il capo Chicksaw”

Lembo dopo lembo fu sgretolata e ridotta a un ultimo spicchio di terra verde difesa dal Grande Fiume, suo compagno, allontanata dagli umani, dalle loro vite, dalle loro tradizioni e dalla loro considerazione.

Faulkner anticipa il problema della convivenza fra uomo industriale e resto dei viventi: animali e vegetali. Dimostra una mirabile sensibilità ecologica ante litteram, che gli consente di distinguere la differenza fra verdi: denuncia la sostituzione di uno autoctono, naturale, selvaggio e per questo ricco di biodiversità endemica, tale da fungere da habitat per altrettanti endemismi animali, con un altro verde, monocolore e monocolturale, di matrice per quanto vegetale, già industriale con tutto lo snaturamento e lo squilibrio di rapporti fra viventi e habitat che impone.

Le Belle Balle

Mediglia, 1 aprile 2021


Alle balle che ci raccontiamo, quando siamo in coppia, finiamo per credere, come a quelle che ci raccontiamo da soli. Sia che ce le si racconti in prima persona, sia che le racconti l'altra metà, sia che le si racconti in coro. Anche in questo la coppia rappresenta un unicum e un soggetto nuovo rispetto ai singoli.

Poi, a conti fatti, a relazione finita, quando si torna individui, chi ne soffrirà di più non sarà il più ingenuo, come accade normalmente per le bugie subite, ma colui al quale resterà meno tempo e possibilità per porvi rimedio. Di qualsiasi bel sogno si sia trattato.

#lockdown #vaccini - C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stone, ma poi finì in Lockdown

 

Mediglia, 21 marzo 2021


Già... In questi giorni mi capita di chiedermi, fra me e me, che cosa succederebbe se in una democrazia la maggioranza delle persone non desiderasse più fare qualcosa, tuttavia chi è al potere (e li rappresenta legittimamente) continuasse a perseverare nell'imporgliela.

Non è detto che una misura giusta e adeguata, per quanto difficile da sopportare, resti la migliore (o meglio, la più condivisa) a prescindere dalla sua durata. Giusto?

Come non è detto che faccia bene al benessere dell’intero organismo questa reiterazione sine die. Prendiamo, ad esempio, gli antibiotici. Li assumiamo, in determinate circostanze precise, per curare quel popolo di cellule che coabitano in quel paese che è il nostro corpo umano. E’ consigliato assumerli in quei casi precisi e solo in quelli. Si parte, cioè, dal presupposto che non vadano assunti per ragioni diverse né per periodi troppo lunghi. Pena, il rischio di nuocere gravemente al bebessere di quella straordinaria società di cellule che è il corpo umano.

Noi esseri umani, in democrazia, già facciamo più fatica a identificarci come un corpo unico e a preservare tale legame, di necessità più sociale che naturale. A maggior ragione, il fatto di reiterare indefinitamente, seppur mediante nuovi atti pensati ad hoc per situazioni di necessità e urgenza, uno stato di eccezionale riduzione delle libertà personali, tende facilmente a divenire ingiustificabile.

Diversa è una situazione di necessità e urgenza. Altra è una situazione seria e prolungata che richieda atti necessari a gestirla. Altra ancora una situazione sanitaria non più seria (pensando al futuro, appunto) che richiederà atti regolatori dei comportamenti sociali (continuare a indossare le mascherine quando saremo tutti vaccinati, ad esempio e che durerà, pare, per altri anni ancora).

Durante questo primo anno l’emergenza Covid è stata tremendamente impattante in termini di rischio per le nostre vite (e continua ad esserlo). Ma da qui a sei mesi, probabilmente, grazie alle robuste compagne vaccinali non risulterà più così tremendamente impattante. Intendo non tanto da minacciare in modo così aperto e chiaro le vite da non lasciare dubbio alcuno sul modo di operare (ad esempio penso all'adozione della misura del coprifuco durante una guerra). Allora mi chiedo: per quanto ancora e fino a che attenuazione del rischio la restrizione delle libertà personali potrà continuare a considerarsi legittima in democrazia?

Perché me lo chiedo ora se ancora siamo in piena emergenza?

Provo a spiegarlo. Secondo le mie reminiscenze di diritto il termine è un elemento essenziale del contratto e la sua mancanza lo rende nullo. Inoltre, ricordo che la reiterazione sine die di un contratto concepito per avere un termine lo snatura (ad esempio il ricorso a rinnovi reiterati di contratti di lavoro a termine) rendendolo di nuovo nullo.

Dunque per questa ragione è ora il momento giusto in cui porsi la domanda: vogliamo ragionare su "per quanto ancora"?

Per quanto ancora, ad esempio, non potremo (nemmeno quando saremo tutti vaccinati già ci dicono alcuni “specialisti”) scegliere di girare senza mascherine? 

Per quanto ancora non potrò vedere il sorriso di un’amica in pubblico passeggiando? 

Anche questo sarà oggetto di regolamenti calati dall’alto? Anche dopo che saremo tutti vaccinati? 

Io non sono d’accordo! E lo voglio dire ora, in tempi non sospetti. A quel punto si tratterà di regolare libertà individuali all’interno di quelle sociali e non sarà accettabile che vengano regolamentate né d’urgenza né coercitivamente.

Per questo è ora il tempo per ragionare di un confine immaginato fra l’emergenza e la sua definitiva archiviazione a favore di una “nuova normalità” per l’appunto, in cui tutti e soli i cittadini vivi, impegnati a vivere le loro uniche esistenze possano scegliere, come hanno imparato e confidato di poter fare nelle Scuole e nelle Università del loro paese, nel nostro caso’Italia, ai tempi dei loro studi, di regolarsi come meglio credono fra le infinite incertezze che l’esistere di per sé pone.

In frangenti come quello che stiamo attraversando, mi chiedo: ma insomma, per continuare a dirci in democrazia, non avrebbe senso immaginare, ad un certo momento, dopo un tempo che non può in re ipso continuare per molto a definirsi emergenziale, ma diventa giocoforza una "nuova normalità", raccogliere l'opinione dei cittadini per decidere come dipanare l’esistenza comunitaria futura?

Non dico domani... Magari stabiliamo fra sei mesi? Facciamo un annetto ancora? Che faccio signo', lascio?? O aspettiamo e basta? Senza fregarcene della mancanza di un termine che ci avevano insegnato essere essenziale?

 

C’è poi c’è la moralmente ingombrante questione de: “E' per il bene di tutti!”. Vorrei anche qui recuperare levità per aiutarci a decidere con un minor peso sul cuore.

Non ci siamo improvvisamente trasformati in Padri della razza umana di stampo biblico. Non si tratta di essere divenuti d’acchito depositari del Bene platonico erga omnes e per sempre. Si tratta, molto più prosaicamente, per quanto da non prendere alla leggera, del bene di tutti i viventi hic et nunc. Perché agli altri esseri umani che hanno vissuto prima della Pandemia e che vivranno dopo di essa, della pandemia Covid-19 e dell'entità e durata delle restrizioni applicate sul genere umano vivente allora, non importava e non importerà un gran ché. A voi importa delle restrizioni che subirono nel periodo della Spagnola?

Lo dico non per fare un ragionamento superomistico o darwiniano, ma, al contrario, per sgravarci di questo apparente fardello de: “è per l’umanità intera” di cui viene caricata, a volte, la questione.

Parliamoci chiaro: anche se il 90% degli umani morisse il restante 10% ripopolerebbe il pianeta nel giro di pochi lustri con effetti pressoché nulli sulla storia dell'umanità.

Quindi è una questione che riguarda il trade-off fra libertà e sicurezza delle vite nostre e nostre soltanto. Riguarda noi vivi ora, tutti noi e soltanto noi. Dunque lo stesso deve valere per le restrizioni, le rinunce e le speranze correlate.

Cerchiamo di prendere in mano la questione con piglio fattivo. Per quanto siamo convinti che continuerà ad essere il comportamento migliore quello di delegare (e ridurre consistentemente) le libertà personali che esercitiamo nelle nostre brevi e irripetibili esistenze (solo di noi vivi ora) come contromisura al rischio di contrarre il Covid (sempre solo noi e ora)? E’ in questi termini che porrei la questione filosofica prima che di diritto.

 Di qui l'altra domanda: nelle more di questa presa di coscienza collettiva e della successiva scelta democratica, continuando come stiamo facendo, fino a quando si continuerebbe de facto a potersi definire in democrazia?

Beninteso, finora (è ancora per un po') condivido il modo in cui si è agito (per quel che può interessare). Ma nella cornice teoretica della tradizione democratica "classica" di diritto fino a che punto è legittimo protrarre questo stato?

Infine, va preso atto del fatto che c'è un fenomeno nuovo sotto il cielo dei paesi democratici (e non solo). E tutti i fenomeni nuovi vanno regolamentati con legislazioni ad hoc, come ad esempio si è tentato di fare per il mondo digitale. Anche di qui il mio chiedermi: ma per questo fenomeno nuovo non dovrebbe esistere un limite di durata alle limitazioni delle scelte personali? Val la pena pensarci per tempo? 

Così, chiedo per un amico.. che amava i Beatles e i Rolling Stone, ma ora (e in assenza di termine) è finito in lockdown.

#PRINCIPIANTI (racconti)

 Autore: Raymond #Carver

Anno pubblicazione: 2009

Io narrante, punto di vista e persona: terza e prima persona, varia al variare dei racconti.

 

Mediglia, 3 gennaio 2021

Potremmo descriverli tutti con una sola frase: racconti dei pieni, dei vuoti e della psichedelia schizofrenica degli anni ’60 e ’70 negli Stati Uniti d’America.

Sì, perché Carver è davvero un intagliatore (carver = intagliatore). Infatti attraverso una tecnica narrativa potente quanto scarna, fatta essa stessa di pieni e vuoti significativi, a volte feroci, riesce a restituirci le esistenze condotte da una certa parte di quella società americana, una società nel complesso mai così opulenta materialmente, ma valorialmente vuota, allo sbando. Ostaggio per la prima volta di questa dicotomia. Il vuoto è così vuoto proprio perché contrapposto ad altrettanto vertiginose nuove e diffuse pienezze materiali, finalmente alla portata dei più grazie dal boom economico. Una ricchezza che riempiva le tasche, le case, le cascine, le proprietà in genere. Uno riempirsi non solo materiale, ma potenziale: che apriva scenari di nuove insperate possibilità per molti. Ma è qui che l’equilibrio salta: a questo riempirsi materiale spesso non fa da contrafforte un altrettanto robusta capacità di gestione personale e valoriale di queste ulteriori disponibilità reali e potenziali. Valori che avrebbero, forse, potuto guidare il godimento di questa nuova ricchezza in maniera più saggia. Insomma, un mondo pieno di possibilità per moltissimi, ma popolato da principianti. E Carver ce ne dà conto, sistemato proprio da quel lato della società, e lo fa in modo specchiato. Riempie le pagine di particolari incisivi per poi svuotarle sapientemente di altri, creando mancanze feroci, assenze potenti, che saltano all’occhio. Riesce a creare veri e propri scenari di un orrore ordinario e diffuso. Un orrore puro, feroce, ma molto umano, troppo umano, direbbe qualcuno, nel suo idiota e ingenuo reiterarsi. I suoi racconti sono alter ego verbali delle opere di Edward Hopper. L’alternarsi e l’ibridarsi di questi pieni e vuoti crea atmosfere psichedeliche mentre la loro alterità fatta del rifiuto di un riconoscimento reciproco ne denota la schizofrenia. Tutto ciò si rispecchia nel linguaggio di Carver che, nello scriverne, ne diviene testimone e mentore interno.

Consigliato a tutti coloro che sono affascinati da Sogno Americano che fu, anche nei suoi aspetti più deteriori.