Autore: Colin Wilson
Anno pubblicazione: 1956
Cosa
accomuna Raskolnikov, Alëša Karamazov, Van Gogh, Nietzsche e Ramakrishna, solo
per citarne alcuni? Essere outsider!
Ma
cosa guida un outsider facendone un outsider? Cosa
cerca egli? E cosa potrebbe guadagnare se riuscisse nel suo intento?
Soprattutto, è ragionevole sperare che possa riuscirci?
Questi
e altri interrogativi costituiscono la matrice dell’avvincente excursus
che l’autore ha l’ambizione di indagare e di tentare di spiegare con questa sua
opera giovanile.
L’opera,
apparsa in Inghilterra nel 1956, fu scritta “in una sala di lettura del British
Museum” in un periodo in cui l’autore,
non ancora venticinquenne, dormiva in un sacco a pelo in un parco di Londra.
L’autore
pare che abbia avuto il privilegio di essere stato toccato da uno stato di
grazia quando l’ha scritta. Infatti, dopo di essa non s’impose più
all’attenzione del pubblico e della critica con tanta forza (chissà che forse,
tenendo presenti alcuni esiti del saggio sugli outsider,
ciò non sia stato il frutto di una scelta deliberata).
Volendo
trovare un difetto a quest’opera, forse, si potrebbe tacciarla, nella sua
analisi, di tendere a ridurre in modo un po’ troppo semplicistico e
“normalizzante” l’“outsiderietà” tutta. Pretendendo di
incanalarla forzosamente all’interno di certi binari sistematizzanti.
Cionondimeno, l’analisi risulta complessivamente originale e convincente e, nel
suo dipanarsi, riesce a cogliere autentiche “gocce di splendore”.
Il
testo giustappone e paragona vita, opere, ricerche e pensiero di artisti,
scrittori, poeti e filosofi che accolgono in sé, come nelle loro opere la cifra
dell’outsider. Fra essi incontriamo Van Gogh, Wells, Dostoevskij, Hesse,
Gurdjieff, Barbusse, Hemingway, Blake, Yeats, Nietzsche e Sartre, fra gli
altri. Tutti accomunati da un file rouge, una
tensione a seguire una certa ricerca di tipo esistenziale.
A
chi consiglio la lettura questo saggio?
A
tutti coloro che leggendo queste parole si sentano toccati nelle proprie corde
più profonde, esistenziali, per l’appunto. A tutti coloro che si sentano
chiamati in causa da questi argomenti; sia per simpatia esistenziale nei
confronti di questi uomini o personaggi, sia riguardo all’aver sperimentato o
allo sperimentare questa condizione di vita, quale che sia la realtà nella
quale siano attualmente immersi.
Il
motto Vivi nascosto di Seneca, secondo l’autore, per l’outsider
sembra fare il paio con la vita civile “occidentale” e con i suoi “valori”
fondanti. La necessità di vivere nascosti pare meno accentuata, invece, per l’outsider
calato nell’antica civiltà orientale, come si vedrà. Ma torniamo alla prima
domanda: l’outsider cosa cerca, ci chiedevamo?
Per
molti di essi l’essere outsider, lungi dal costituire una
debolezza, rappresenta più un eccesso di energia che, fluendo attraverso i loro
corpi e le loro menti fisiche, finisce per consumare entrambi. Si tratta di
umani rari, duri come i diamanti fra le pietre, ma altrettanto fragili. Fragili
di una fragilità che conferisce loro al contempo una eccezionale capacità di
provar piacere e dolore e che, pertanto, s’impone de facto nelle loro
esistenze quale “imperativo categorico” e ricerca dello “Spirito Assoluto” per
finalmente riuscire a sentire meglio, alle volte semplicemente meno. Elevazione
che, secondo l’autore, può seguire almeno due vie: quella religiosa o quella
aconfessionale che insegue la conoscenza dell’assoluto: il tentativo di
cogliere, si potrebbe dire, a livello personale la progredente spirale
hegeliana che tenta di abbracciare il tutto, avendo ben presente che la realtà
è tutto ciò che non è de-finito in cristallizzate tesi e antitesi,
ma soltanto stabilità della sintesi, in continuo mutare e perciò unica
realtà sempre presente. Tutto ciò, in questi outsider, si traduce in
visoni e opere del reale che finalmente appare loro come un continuum di forme in inesausto
cambiamento. Acquisizioni che, una volta guadagnate, conducono
all’Illuminazione di Siddharta, in Oriente, alle spirali dei campi di girasoli
ai cieli stellati colti dai dipinti di Van Gogh, all’epifanica disperazione di
Alëša Karamazov che si getta a terra in un campo, descritta da Dostoevskij, e
finanche alle lacrime commosse che improvvisamente solcano il volto di
Nietzsche a Torino, in Occidente.
Ma
non m’inoltro oltre, per non disvelare altro.