Il lavoro, questo conosciuto

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Milano, 3 settembre 2009




Il peso del lavoro rispetto a quello delle altre sfere dell’esistenza possibili è dato in gran parte dalla necessità di ridurre il nostro ventaglio comportamentale a un novero molto inferiore, costringendoci ad assumere e mantenere un’identità più rigida e predefinita rispetto al normale (sia riguardo le azioni che le reazioni assumibili di fronte agli eventi). È questa riduzione della libertà di azione (e reazione) che, nella maggior parte dei lavori contemporanei delle società ricche, alla lunga davvero pesa. Ancor più della fatica, della noia o dello stress che, tendenzialmente, non sono dissimili a quelli provati negli altri ambiti dell’esistenza contemporanea.

L’aspetto più difficoltoso sta nel dover riuscire a conservare per l’intera sessione quella disposizione richiesta. Come in quei giochi che fanno i bambini nei quali gareggiano a restare immobili in una posizione, più si protrae la durata delle sessioni e la frequenza delle stesse, più diviene naturalmente innaturale resistere. Questa tendenza all’innaturalità del lavoro, inoltre, cresce al crescere dello scostamento fra l’occupazione e la personalità di ognuno e della durata, sia delle singole sessioni che del tempo–vita totale dedicato alla medesima occupazione o ruolo; al punto che tale occupazione finisce per diventare la principale responsabile della cristallizzazione dell’io, tanto di quello sociale quanto di quello individuale.

A causa di quest’odiosa ripetizione e della riduzione del proprio spettro comportamentale, che a sua volta comporta una conseguente riduzione delle possibilità di esplorazione del sé, molte persone dopo qualche tempo, cercano di cambiare lavoro…

Esistono degli antidoti che aiutano a resistere? Sì, si tratta di personalizzare il più possibile procedure e comportamenti adottati sul posto di lavoro.