#MARCOVALDO (romanzo)

 

Autore: Italo Calvino

Anno pubblicazione: 1963

Io narrante, punto di vista e persona: terza persona.




Il mio primo incontro con “Marcovaldo” fu alle elementari: ho un ricordo della mia maestra intenta a leggercelo mentre dalle finestre con telaio in acciaio della nostra classe vedevamo, e sentivamo, scrosciare temporali primaverili.

Fin dall’impianto dell’opera è chiaro il valore che l’autore attribuisce alla natura. Infatti i racconti sono raggruppati secondo le stagioni e loro cicli. Nonostante il testo tratti dell’ancestrale rapporto esistente fra l’uomo, l’ambiente naturale e gli altri suoi abitanti, tematiche di per sé eterne, Calvino riesce a realizzare un affresco molto preciso dei luoghi e del tempo in cui sono ambientate le vicende del nostro eroe. Fra le sue pagine si respira l’aria che tirava nelle grandi città del nord Italia a cavallo fra gli alternativi ma ancora molto tradizionali anni ’60 e gli industriali e moderni anni ’70

I racconti che compongono il romanzo sono leggibili e godibili anche separatamente. In essi l’autore rende con rara delicatezza umana e naturalistica, quasi fiabesca, l’impatto socioambientale che cattivi comportamenti sociali e industriali, in via di progressiva e massiccia diffusione proprio in quegli anni, stavano determinavano e avrebbero determinato sul cittadino medio, sui suoi cari, e sulle loro possibilità di vivere vite umanamente e naturalmente sane.

Con il suo stile divertente, leggero e iconico, l’autore ci  racconta dell’inquinamento pervasivo, dello strazio della natura a tutto tondo e del progressivo, ma inesorabile, incupimento sociale che essi determinano fra i membri di una società sempre più ricca materialmente e sempre più povera in termini naturali. Lo fa attraverso l’operaio e capofamiglia Marcovaldo: entusiasta malinconico, nostalgico della natura, che non accetta di vedersi esiliato da lei né di vederla esiliata e che, pertanto, non perde occasione per stringersi ad essa, quand'anche ciò si rivelasse un abbraccio mefitico. L’inesauribile, ingenua e saggia, al contempo, tensione che anima Marcovaldo e la sua famiglia non si arrende e non rinuncia al tentativo di perseguire la sua frequentazione quotidiana con la natura. Tutte le occasioni di vivere la natura che le si presentano sono buone. Calvino dipinge un affresco leggero, ma mai superficiale, anzi, profondo come solo sanno esserlo le storie semplici. Lambisce tematiche pervasive riuscendo a cingerle con una soffusa aurea favolistica, spolverata d’ingenuità, con riflessi a volte comici, altre drammatici, ma mai assolutoria nei confronti di quei comportamenti umani che stanno, atto dopo atto, distruggendo questo sacro fragile equilibrio cui tutti noi dobbiamo la vita.

 

 

 

“L’amore per la natura di Marcovaldo è quello che può nascere solo in un uomo di città [] questo estraneo alla città è il cittadino per eccellenza”

(Dalla presentazione di Calvino all’edizione del 1966)

#LOLITA (romanzo)

 Autore: Vladimir Vladimirovič Nabokov

Anno pubblicazione: 1955

Io narrante, punto di vista e persona: prima persona, punto di vista del protagonista maschile.

Numero indicativo pagine: 360




Lolita rappresenta il Cuore di Tenebra di un maschio “incivilito”. Diagnosi e prognosi di una traiettoria esistenziale. Quella di un uomo inserito in una società ancora pervasa da una certa morale pur professandosene libera. Morale che egli, proditoriamente, decide di refutare, per restare fedele soltanto alle sue pulsioni.

 

 

Il prof. Humbert Humbert, inserito nell’America statunitense del secolo scorso, paese dalle vedute e dalle possibilità apparentemente sconfinate, sceglie di riconoscere e rispettare soltanto i suoi desideri. In particolare quelli legati alla sfera della libido sessuale. Quest’angolo del suo essere assurge a maître a penser della sua esistenza conducendolo fino ad ammalarsi e a dover essere ricoverato. Questa postura esistenziale non tarderà a porlo ben al di fuori della morale del paese che lo ospita.

Nonostante nel caso in specie sia evidente dove risieda la nevrosi, ad una lettura attenta non può non sfuggire che l’impostazione morale puritana americana, o meglio statunitense, come non mancano mai di sottolineare, e a ragione veduta, gli altri americani non statunitensi, ha una forte connotazione giusnaturalista che più che liberale risulta impegnata a propugnare un modo di vivere “più giusto degli altri”. Chissà che l’autore, di origini russe, abbia voluto anche denunciare questo… Certamente il romanzo offre il destro per una riflessione. Argomento più che mai attuale per tutte le democrazie contemporanee.

Tornando all’opera, il prof. Humbert Humbert sposa a tal punto la sua causa da giungere a calpestare non soltanto le convenzioni dell’apparentemente più liberale società di quel tempo, ma persino a forzare la propria natura umana e biologica che, nel suo naturale invecchiare, gli chiederebbe venia rispetto a quel suo appetito insaziabile. Tuttavia egli, sordo in primo luogo verso i suoi bisogni autentici non glielo concede ed eleva tale scelta a direzione e insieme limite della sua parabola esistenziale. Finisce così per trasformare la sua esistenza (e quella di Lolita) in un solitario avamposto, teso alla disperata difesa di quell’arbitrio (libero?) che non cede a nulla. Giunge persino a immaginarsi il “piacere” che avrebbe potuto ricavar dal compiere gesti che, se attuati, risulterebbero persino doppiamente incestuosi, se così si può dire: s’immagina anziano sedurre la figlia che potrebbe avere, un domani, dalla sua stessa figliastra.

La scelta di assurgere a unica musa della propria esistenza la propria libido, lo isolerà sempre più. Ciononostante egli, simile a un moderno Icaro, procederà.  Il professor Humbert Humbert sogna e vive il suo sogno che trascolora in un incubo conducendo con sé per mano la piccola Lolita, ormai non più tanto innocente, e con loro te, caro lettore. Lo fa viaggiando in auto per Motel e Hotel disseminati per le solitarie e sterminate strade degli USA, stavolta sì, in un delirio di libertà contagiante.

L’obiettivo anticonformista di Nabokov è stilisticamente centrato grazie all’adozione del punto di vista tutto interno al protagonista maschile che, per qualcuno toccato da eccesso d’immedesimazione, diventa quasi condivisibile.

Io (#Berlusconi) lo tengo presente così…

                                                                                                                   Mediglia, 18 giugno 2023 




Il berlusconismo, esattamente come il fascismo, non è la più grande catastrofe culturale del nostro tempo. Ma, sempre come il fascismo è stato rispetto ai totalitarismi, ne è una declinazione.

Berlusconi fu la “miglior” incarnazione italiana di un fenomeno storico sociale, tutt’ora in atto, che rappresenta forse la peggior crisi delle democrazie contemporanee.

Ma egli fu in buona compagnia. Il fenomeno, al contrario dell’interprete italiano, gode di ottima salute. Nelle varie democrazie contemporanee, altri come lui, forse meno iconici, con tratti simili, anche se non identici, sono venuti alla ribalta; e anche rispetto a questo aspetto il paragone con il fascismo e i totalitarismi ben si attaglia alla fattispecie.

Penso a Jair Bolsonaro in Brasile, a Donald Trump in USA, a Boris Johnson in Gran Bretagna, per citare gli esponenti più in vista. Ma sono convinto che se si facesse un'indagine approfondita se ne potrebbe individuare uno per quasi ogni democrazia contemporanea.

Si tratta delle "migliori" incarnazioni di una congerie di disvalori che trasversalmente affliggono le democrazie contemporanee tutte.

I loro esponenti, in modo più o meno sovrapponibile, anche se con accenti differenti, propugnano la furbizia al posto del valore, il far poco per avere molto come stile e obiettivo di una vita piuttosto che il piacere della fatica che consente di realizzarsi (si badi bene che, nella realtà, queste persone nella loro vita privata sono estremamente operose, contrariamente a quanto questa filosofia di vita vorrebbe far credere), l'apparire piuttosto che l'essere, il coltivare il piacere edonistico fino a farlo assurgere a vizio piuttosto che la coltivazione della virtù come fondamentale fattore per la realizzazione di sé, la comodità stolida e inetta alla fatica che fa crescere, un’epidermica avversità per il rispetto delle regole sociali e per gran parte delle istituzioni democratiche, che dipingono come colpevoli di drenare parte delle loro intoccabili risorse e delle loro irriducibili e sacrosante libertà personali.

Libertà, le loro, che, in questa esegesi della Vita non dovrebbero venir mai, in alcun modo, scalfite, depotenziate, contenute. Nemmeno se il prezzo da pagare fosse la tutela di una minorenne, la tutela dello Stato attraverso una contribuzione alle imposte, che dovrebbe valere per tutti o per nessuno, il sottoporsi, come tutti, alla Legge, la tutela del polmone verde del mondo, l’appartenenza a un contesto di paesi membri fra loro aventi pari diritti, per citare esempi che riguardano i Nostri Quattro.

Essi, in accordo con l’ideale che propugnano e incarnano, s’identificano con esseri forti, più potenti e acclamati dei generici "altri". “Altri” che si guardano bene dall’identificare precisamente, individualmente. Si tratta sempre di categorie “altre”, per l’appunto, rispetto a coloro ai quali, di volta in volta si rivolgono. Grazie a questo gioco di prestigio l’elettorato attivo non si sente mai privato di alcunché. Al contrario sente che questi Eletti, se eletti, saranno (sarebbero) in grado di difenderli da quegli “altri” che li minacciano, in maniera più o meno fumosa rispetto a una presunta libertà di serie A, altrettanto fumosa, ma non ancora avveratasi, che gli Eletti (se eletti) potrebbero realizzare in terra. Un’età dell’Oro postmoderna, insomma.

È interessante notare che questa invocata libertà dovrebbe appartenere a tutti, e ciononostante dovrebbe magicamente non limitare quella di nessun altro. Una libertà in grado di moltiplicare i servizi pubblici riducendo le imposte e tasse, ad esempio. Una libertà che, per colpa di quegli “altri”, purtroppo viene al momento, fatalmente, negata. Questa struttura di rappresentazione del reale costituisce un ottimo convogliatore e capro espiatorio della rabbia sociale, questa sì presente fin d’ora e divisa, sempre a detta di questi esponenti, equanimemente.

Un altro aspetto interessante riguarda il fatto che questa pretesa “libertà” non è per tutti (o forse sì, dipende dal fatto che si sia o meno in campagna elettorale, durante questi periodi epifanici viene promessa erga omnes). Durante il resto della normale vita democratica questi emissari, si sentono divulgatori di un credo che dovrebbe consentire a loro e ai propri accoliti soltanto di  assurgere a un livello di umanità più umana, parafrasando Orwell.

Essi finiscono così per sentirsi gli esponenti di un’umanità bifronte: umana in via di principio, ma nei fatti insofferente a qualsiasi accorgimento democratico che intenda elevare, o almeno preservare l’equilibrio della società tutta e dei viventi in genere (umani, animali e vegetali, si veda la becera  e colpevole distruzione della foresta amazzonica), qualora pretendesse, in qualsiasi modo, di limitare la loro libertà che dovrebbe, sempre secondo il loro sentire, poter debordare costitutivamente, sorgivamente e platealmente sul resto del mondo, incontrastata.

La diplomazia

 

#antropologia, #comportamento, #inunarigaopocopiù, #psicologia

 

Milano, 23 marzo 2011

La diplomazia è quell’arte che riusciamo a esercitare meglio con le persone che non ci interessano davvero.

BREVE STORIA DELLA FILOSOFIA Antica e Medioevale

Agosto 2022


Ci siamo! Finalmente è stato pubblicato il saggio a cui ho lavorato in questi ultimi tre anni. Si tratta di una "Breve Storia della filosofia Antica e Medioevale".

   


“Come mi è venuto in mente di scrivere questa sintesi?” 
mi viene spesso chiesto. Semplice. Perché per quanto da autentico appassionato di filosofia mi sia adoperato per trovare presso le più prestigiose biblioteche milanesi e le più fornite librerie quel che cercavo non mi riuscì di trovarlo. Infatti la scelta che mi si parava dinanzi, grossomodo, divideva i libri e i manuali disponibili in quattro categorie: i manuali tanto curati quanto vasti e ponderosi, le opere che trattavano una sola questione specifica in modo molto approfondito senza però fornire una panoramica d’insieme della materia, i testi generali tanto compatti quanto, a mio avviso, poco rigorosi e, infine, le opere di mero intrattenimento relative alla storia della filosofia. Mancava proprio ciò che cercavo io: una sintesi rigorosa ma non troppo estesa di tutta la storia della filosofia occidentale antica e medioevale. Un’opera pensata per veri appassionati di filosofia, in grado di comprendere e desiderosi di seguire anche passaggi non banali, che tuttavia non potessero o non volessero in questo momento accostarsi ad essa investendo una mole di tempo di cui non dispongono.
Così io, che tempo ne ho voluto e potuto trovare, consapevole che purtroppo molti non godono di tale privilegio, mi sono voluto cimentare in quest’ardua impresa.
Nel farlo ho cercato, nei limiti del possibile e delle mie facoltà, di non perdere il rigore e il senso del continuum logico che questa storia produce e ha prodotto nel suo dipanarsi (o di perderne il meno possibile). Ho cercato inoltre di non dar per scontata alcuna conoscenza prodromica a introdurre i diversi concetti che vengono man mano esposti, in modo da dar conto della costituzione progressiva di questo continuum anche a coloro che non abbiano rudimenti di filosofia. Ciò al fine di gettare luce sul percorso che il pensiero dell’umanità occidentale ha seguito. Un excursus che, partendo dall’antica Grecia, conduce fino a noi, delineando un sentiero concettuale che è peraltro, lo stesso che, per alcuni tratti, percorsero a suo tempo anche questi grandi pensatori.
Ho scritto questa sintesi nella speranza che rendere disponibile un tale percorso, agile e rigoroso possa risultare utile, in particolare ai giorni nostri. Ritengo infatti che possa contribuire a far meglio comprendere alcune delle dinamiche profonde dell’esistenza umana in generale, e in particolare di quelle della società contemporanea occidentale, nella quale siamo inseriti.
Infine perché può offrirci conforto nell’interrogarci e nel valutare le nostre esistenze individuali, rendendoci più autonomi e consapevoli rispetto al contesto storico e sociale nel quale siamo immersi e, chissà, consentirci di scoprire che alcune delle posizioni personali che assumiamo nei confronti della complessità della vita e che sentiamo sorgive e “solo nostre”, fuoriuscenti esclusivamente dalla nostra personale visione del mondo, spesso possono, senza che ce ne si renda conto, poggiare sulle spalle di giganti del pensiero: i maestri della filosofia occidentale.

Di seguito il link per leggere l'anteprima ed eventualmente acquistarne una copia cartacea o in formato ebook su Amazon.


BREVE STORIA DELLA FILOSOFIA Antica e Medioevale - Samuele Sartorio



#filosofia


Come squalificare un’azienda di certificazione

#economia, #formazione, #organizzazionesociale, #scuola

 Mediglia, 22 maggio 2022

 


Se volessi sabotare un'azienda, squalificarla, che farei? Poniamo un'azienda di servizi. Più precisamente un'azienda che rilasci patenti o certificazioni di un qualche tipo.

Probabilmente l’azione più efficace da intraprendere sarebbe quella di tentare di svalutare i titoli che rilascia.

Tentare di far in modo che non siano più segnaletici di alcun valore aggiunto.
Far sì che in coloro che li conseguono non attestino più alcuna competenza speciale, desiderabile e rara rispetto alla popolazione, in genere. Se l’operazione mi riuscisse, sia i titoli erogati che l’azienda finirebbero per perdere valore sia agli occhi del mercato che della società tutta.

Certo. Ma come potrei attuare un simile proposito? Non è facile! Dovrei agire su più fronti. Ad esempio, cominciando a concedere questi titoli a chiunque ne faccia domanda. A prescindere dal fatto che abbia o meno raggiunto gli obiettivi minimi auspicati per essere giudicato titolabile.

Va bene. E poi? E poi si potrei richiedere per legge altre certificazioni successive per concedere di fare qualsiasi cosa.

D’accordo, e poi? E poi, se non bastasse, potrei colpire gli stessi formatori. Fiaccarli, zepparli di adempimenti, demotivarli, inibirli, confonderli e screditarli agli occhi dei più.

Fiaccarli. Con innumerevoli adempimenti che tolgano loro energie per formare e trasmettere il sapere utile con gioia.

Zepparli. Con adempimenti e scadenze che li facciano annaspare, disorientare e distogliere dal compito precipuo della trasmissione delle conoscenze, abilità e competenze realmente utili a fare la differenza per coloro i quali intraprendano il percorso formativo.

Demotivarli. Riconoscendo loro sempre meno sia in termini economici reali (basterebbe non adeguare il loro stipendio all'inflazione per qualche anno), sia in termini di riconoscimento del loro ruolo sociale.

Inibirli. Togliendo loro sempre più potere all'interno dell'azienda. Sia dal punto di vista didattico che disciplinare all'interno dei corsi e poi, rendendoli succubi dei loro superiori e di leggi e regolamenti che, apparentemente, tutelano chi si sta impegnando per conseguire quella certificazione; chi per ottenere essa sta investendo il suo tempo, il suo denaro, le sue speranze e anni irripetibili della sua esistenza. Inserendo per essi tutta una serie di diritti "a non fare" che, nel lungo periodo, per l’appunto, finirebbero per svalutare la certificazione.

Confonderli. Attuando dei continui cambi di regole, d’indirizzo e di programma, spesso contraddittori e privi di qualsiasi lungimiranza strategica.

Screditarli. Dal punto di vista sociale, del riconoscimento economico e professionale. Agendo anche sul sistema di reclutamento, che poi è il fattore principale che, nel medio lungo periodo, garantisce un'autoselezione di profili che tenderanno a divenire così sempre
più mediocri, finendo con l’affossare definitivamente l'azienda.

Tutto a vantaggio di chi? A vantaggio della concorrenza di altri certificatori (magari privati, amici di amici) e a vantaggio di chi li dovrà dirigere. Infatti i nuovi individui "certificati"
saranno meno competenti, più ignoranti e perciò più facilmente manipolabili.

Ogni riferimento e analogia con una certa struttura della Pubblica Amministrazione italiana non è del tutto casuale.

Buon #25aprile

 

#comportamento, #globalizzazione, #organizzazionesociale, #politica

 

Mediglia, 25 aprile 2022


Durante le guerre quasi tutti (i cittadini) vogliono la pace. Le differenze cominciano a delinearsi quando si passa ad analizzare il modo in cui ottenerla. Esistono potenzialmente infinite soluzioni di pace. Si va dall’annientamento integrale di una delle due parti, che determina anch’esso un tipo di pace, a quello della parte avversa, che porta anch’esso a un tipo di pace, evidentemente diverso dal primo, fino a giungere all’annientamento di entrambi i contendenti, che porta a un tipo di pace ancora differente. In generale, le paci, si distribuiscono su gradazioni intermedie fra queste, che prevedono quote di annientamento dei due contendenti più o meno complete.

Dunque la domanda di senso, quando si è di fronte a un conflitto non può essere se si vuole la pace, ma per che tipo di pace si propende. Tale posizione implica di per sé già una qualche dose di compromesso realistico. Infatti la pace, qualsiasi pace, si fonda su compromessi. Compromessi condivisi e rispettati fra le diverse libertà, fra i diritti e i doveri reciproci. Questo punto è molto importante. Tanto che, a ben vedere, è proprio quando si mal sopportano tali allocazioni (o quando sono palesemente inique) che si preparano i terreni dei futuri conflitti. Tale effetto si è dimostrato valido per i conflitti passati e promette di esserlo anche per quelli presenti e futuri. Di qui l’importanza di avere ben chiare queste implicazioni tutte le volte che ci chiede: “Che tipo di pace desidero?”

La guerra, una volta cominciata, la vince colui il quale ottiene la pace che desidera. Chi perde, invece, qualora non venga eliminato completamente, è costretto ad accettare la pace imposta dalla controparte.

Prioritario, affinché la futura pace sia duratura, resta come scrivevo, il fatto che sia giusta. Dunque è cruciale definire quando una pace può dirsi realmente giusta per i sopravvissuti. Purtroppo (o per fortuna) non dispongo di una risposta che valga erga omnes, esaustiva e bell’e pronta. Tuttavia vorrei continuare a esporre alcune considerazioni che ritengo abbiano a che fare con il tema.

Ritengo che qualunque pace giusta non possa legittimare l’aggressione e la conquista armata attuata da un paese nei confronti di un altro, libero e sovrano. Altrimenti passerebbe il messaggio per cui la comunità mondiale (preferisco questo termine a quello che percepisco come più elitario di comunità internazionale) avallerebbe tale modus operandi che altro non è se non l’attuazione della ferina, primitiva e barbara “legge” del più forte. Legge che legge umana positiva non è, ma di legge di natura, al più.

Oltre al tipo di pace che si desidera ottenere, esito finale di una guerra, poi tocca anche valutare e decidere che tipo d’impegno profondere nel corso di una guerra, tenuto conto che non sempre le guerre si possono vincere. Per prendere questa decisione va tenuto presente che oltre all’esito finale di una guerra, assume grande rilievo il costo sopportato per vincerla dal più forte. Dunque, anche qualora non si riuscisse a vincere una guerra si potrebbe renderla estremamente costosa e sconveniente per l’aggressore. In tal modo gli si farebbe pagare talmente cara la “pace” che poi imporrà, da disincentivarlo a ritentare l’operazione in futuro. Se si propende per tale posizione di resistenza, questa va alimentata e difesa finché se ne ha la forza. Infatti ogni singolo sforzo profuso in tal senso rende meno appetibile il guerreggiare come modus operandi, sia nel presente che nel futuro, sia in quella guerra che in generale. Al contrario, ogni ripiegamento lo incentiva. Questo è il senso della resistenza nel presente che dà esempio di sé per il futuro.

Se ci pensiamo constatiamo che funziona allo stesso modo anche nella logica individuale: chiunque quando valuta se può o meno permettersi di avere qualcosa, lo fa in base al prezzo che deve pagare per ottenerla. Anche per questa ragione, oltre che per una ragione di compassione umana per gli aggrediti, che do per scontata, ha senso resistere. Resistere alza la posta in gioco per l’usurpatore rendendo la guerra un cattivo affare, anche per il futuro. Se tale resistenza viene coadiuvata dalla comunità mondiale può giungere a stigmatizzare quel modus operandi fino a renderlo de facto inattuabile, diseconomico e perciò inattuale, secondo il pensiero dell’umanità contemporanea mondiale tutta.

Per tutto quanto esposto, personalmente ritengo, giusto fornire a un paese aggredito militarmente senza ragione da un altro sul suo territorio sovrano, tutto il supporto militare difensivo possibile, incluso quello più avanzato tecnologicamente, da parte delle altre nazioni.

Non ritengo invece giusto che le altre nazioni gli forniscano mezzi militari in grado di portare attacchi sul territorio dell’aggressore, che resta altrettanto sovrano nel suo territorio, nonostante la condotta attuata. Ciò in quanto non credo che si possa combattere (in primis concettualmente) un’aggressione territoriale fornendo all’aggredito le possibilità di attuarne un’altra di segno opposto.

Tuttavia ritengo anche che il paese aggredito, a livello individuale e nei limiti delle proprie risorse personali, abbia pieno diritto a contrattaccare, anche sul territorio dell’aggressore.

La comunità mondiale, invece, dovrebbe sempre, a mio avviso, avere sia il diritto che il dovere civile, finché il paese aggredito non decida di arrendersi a suo insindacabile giudizio, beninteso, di fornirgli tutta l’assistenza possibile. Sia essa umanitaria, alimentare, sanitaria e militare; quest’ultima purché limitata alla sola difesa, ribadisco. Il tutto per riaffermare il diritto universale, se non ad avere una pace giusta, almeno a favorire una condotta internazionale giusta, anche nell’affrontare un frangente che di giusto ha ben poco.

Buon 25 aprile 2022!